sabato 26 gennaio 2013

3. Il Giardino dei Blackbone - III parte

John Blackbone entrò nello studio di Burton e si sedette. Il Console notò subito l’espressione tesa e preoccupata del suo segretario.
“Notizie da Henriette e i bambini?” chiese, sperando in una risposta che confermasse che stavano tutti bene.
John fece scivolare un involto di carta sulla scrivania fin sotto il naso del Console. Burton lo aprì: c’erano due buste. Una conteneva un telegramma, l’altra una lettera.
“Ho ricevuto tutto un’ora fa” precisò Blackbone. La posta, infatti, gli veniva recapitata una volta al mese.
Burton non mosse un muscolo e lesse il telegramma spedito da Nora tre settimane prima, pressappoco alla fine di luglio: Situazione grave. Stop. Urgente tuo arrivo. Stop. Bambini bene. Stop.
Il Console aggrottò le sopracciglia. Strano, pensò, se le cose sono gravi come mai la moglie non ha scritto nulla? La lettera, anche quella inviata da Nora, del resto aveva un tono completamente diverso rispetto al telegramma.

Caro John,
per prima cosa desidero scusarmi con te per il telegramma. Ti sarai preoccupato e per questo motivo ti scrivo una lettera, così da spiegarti per esteso cosa è successo e riportarti alla tranquillità. Sappi comunque che qui stiamo tutti bene e aspettiamo con gioia il tuo arrivo. La casa ha uno splendido giardino, ammirato dai vicini e dai conoscenti, tanto che si parla in giro di questo “giardino dei Blackbone” come di una piccola oasi nel cuore di Trieste… ma ritorniamo a noi e alla faccenda del telegramma.

Come avrai notato tra quello e la lettera è passata una settimana e ciò perché in quei giorni sono riuscita a rivedere le cose nella giusta prospettiva. Credo di essere stata vittima della stanchezza e dei notevoli cambiamenti ai quali il mio sistema nervoso ha dovuto far fronte in questi ultimi due mesi. Due donne sole in una città sconosciuta dove solo pochi parlano la nostra lingua (va un po’ meglio a Henriette, il francese lo conoscono già più dell’inglese, ma la maggior parte della gente qui parla uno strano dialetto oppure lo slavo o il tedesco…), insomma stavo dicendo, due donne sole possono trovarsi in qualche difficoltà. Per molte notti ho dormito poco e mi sono lasciata impressionare troppo da alcuni fatti di cronaca locale: omicidi, stupri e altre nefandezze sembra che qui siano tristemente frequenti nell’ultimo periodo. Nessuno sa perché, ma è così. E questo mi ha turbata tanto che due sere prima che ti spedissi il fatidico telegramma, ho creduto che in casa ci fossero i ladri. Qui non siamo al sicuro, mi sono detta. Questa città è troppo pericolosa per noi e per i bambini. Forse la nostra partenza anticipata rispetto alla tua non è stata la scelta migliore… Insomma, mi sono sentita sola e avrei pagato tutto l’oro del mondo per averti con noi. Così ho pensato che avresti potuto raggiungerci un po’ prima e… che il modo migliore per convincerti a farlo fosse scriverti quella cosa.
Caro fratello, appena inviato il telegramma mi sono resa conto della grave mancanza nei tuoi confronti ma ormai era cosa fatta e mi vergognavo troppo a smentire tutto. Più i giorni passavano, però, e più il rimorso mi tormentava e così eccomi qui a scriverti questa lettera per chiederti perdono. So quanto è importante per te che la verità venga sempre detta.
Amato John, se puoi dimentica il torto subito e di tutta questa spiacevole vicenda ricorda solo che quanto è stato è stato fatto perché ci manchi molto e desideriamo vederti e riabbracciarti presto!
La tua affezionatissima sorella Nora

P.S. Qui ad accoglierti troverai anche il Principe di Galles!

Burton richiuse la lettera e la restituì a Blackbone. I due uomini rimasero in silenzio per qualche minuto sapendo entrambi che nessuno dei due si era bevuto la storia dell’esaurimento nervoso di Nora. Per Henriette poteva anche starci, ma Nora proprio no. Era una ragazza con troppo carattere. Ora rimaneva da capire cosa fosse successo.
 

Passata quella notte infernale Nora si riprese solo alle prime luci dell’alba di due giorni dopo. Giovanna e Henriette l’avevano faticosamente trascinata fino al suo letto e a turno controllavano che il suo sonno fosse tranquillo.
Quando riaprì gli occhi, Miss Blackbone vide il volto grassoccio e sudato della cognata che ondeggiava immerso in un alone azzurrino. Tentò di tirare il lenzuolo sopra la testa ma era debole e le braccia ricaddero subito ai lati del corpo.
“Nora…Nora, mi senti cara? Non sai che spavento ci hai fatto prendere...”
Henriette come al solito piagnucolava quasi fosse lei ad aver subito il peggio.
Nora cercò di mettere a fuoco la stanza e quando vi riuscì scorse anche i nipoti. Philip e Isabel la osservavano seri e sembravano quelli di sempre, un po’ tristi ma nel complesso tranquilli. Com’era possibile dopo quello che era successo?
“Su, bambini, la zia non è stata bene e ha sicuramente bisogno di risposare. Andate a giocare in giardino.”
“No, aspettate” riuscì a dire Nora, rendendosi conto che era davvero stanchissima e ogni parola le costava uno sforzo.
“Insisto” riprese Henriette “verranno a salutarti dopo. Ora sarebbe meglio se tu provassi a mangiare qualcosa per rimetterti un po’ in forze.”
Nora non aveva per niente fame ma capì che la cognata non aveva tutti i torti.
“Va bene. Vorrei della frutta.”
Improvvisamente si ricordò del cane.
“Dov’è Prince?”
Henriette la guardò leggermente infastidita.
“Giù in giardino. L’abbiamo dovuto legare perché si era inchiodato vicino al tuo letto e non la smetteva più di lamentarsi. Sai quel verso strano che fanno i cani? Se fosse rimasto qui non saremmo riusciti a chiudere occhio stanotte e nemmeno la notte prima.”
“Piangeva” mormorò Nora “Lo potete liberare per favore? Vorrei che venisse qui a farmi compagnia.”
Mrs. Blackbone si irrigidì. Quel diavolo di un cane non le stava simpatico, non fosse altro che per lo spavento che le aveva fatto prendere la sera che Nora si era sentita male, quando era sfrecciato in casa come se avesse il demonio alle calcagna.
“Se proprio non puoi farne a meno.”
“No, non posso” rispose secca Nora e chiuse gli occhi.
Henriette scese in giardino e ordinò a Giovanna di slegare l’animale. In meno di un minuto Nora sentì Prince che zampettava fuori dalla sua stanza. Lo chiamò e il cane si precipitò da lei. Nora lo accarezzò e non poté fare a meno di cercare nelle pupille nere dell’animale una sorta di conferma a ciò che entrambi avevano visto due sere prima ma, come Henriette e i bambini, anche Prince non dava segni di nervosismo. Eppure lei sapeva quello che aveva visto. E allora perché? Perché sembrava che non fosse accaduto nulla?
Mrs. Blackbone entrò con un vassoio.
“Eccomi qui cara. Sforzati di mangiare almeno un po’ d’uva, coraggio.”
“Grazie, lo farò. Però c’è una cosa urgente che devo chiederti Henriette.”
“Dimmi pure.”
Mrs. Blackbone addirittura sorrise.
“Che cosa è successo due sere fa? Voglio dire: io credo di saperlo, ma dato che sono rimasta incosciente per quasi due giorni vorrei essere sicura di ricordarmelo bene…”
Henriette sospirò.
“Sei inciampata mentre correvi su per le scale dietro a Prince a vedere perché Giovanna urlava. Per inciso: Giovanna aveva gridato perché quando stava chiudendo la finestra in camera di Isabel era entrato un pipistrello che poi fortunatamente è uscito da solo… comunque, dicevo, sei inciampata, sei caduta, hai battuto la testa e sei svenuta. Trauma cranico, cara. Questo almeno è quello che ci ha spiegato il dottor Schmitz. L’abbiamo chiamato, io e Giovanna, perché tu non ne volevi proprio sapere di riprenderti.”
Henriette ridacchiò.
“È andata bene. Ti saresti potuta rompere l’osso del collo, cara.”
La gola di Nora si chiuse e iniziarono a salirle le lacrime agli occhi. Con grande fatica riuscì a chiedere se poteva parlare con Giovanna. Lei era stata l’altra testimone oculare dell’orrore…
Henriette annuì, contrariata dal fatto che sua cognata non volesse sapere come lei e Giovanna fossero riuscite a gestire perfettamente la situazione ma, evidentemente, Nora doveva essere ancora fuori fase e così lasciò perdere. Scese da basso in cerca della governante, la quale confermò la versione della botta in testa.
Rimasta di nuovo sola, Nora chiuse gli occhi. Ad un certo punto il torpore la colse e fu allora che la sua mente (o forse fu la sua anima) le venne in aiuto.

Era nella sua vecchia casa di Oxford. In quel periodo John era giovanissimo e non ancora proiettato verso la carriera diplomatica per seguire le orme del padre, John Blackbone senior, che da anni serviva Sua maestà Britannica in India. Il rapporto con Mrs. Blackbone non era dei migliori a causa del temperamento depresso della signora che non perdeva occasione di riversare sui figli le proprie angosce esistenziali dovute ai lunghi periodi di solitudine. Se da un lato John, essendo il maggiore e per giunta maschio, godeva di alcuni privilegi, dall’altro al ragazzino veniva richiesta un’assunzione di responsabilità che non gli competeva, né per età né per status. Era pur sempre il figlio di Mrs. Blackbone e non il marito e questo non autorizzava la madre a soffocarlo e pretendere che lui la accompagnasse ogni santa volta all’Opera o dal dottore, dove si recava piuttosto spesso a causa dei suoi nervi fragili.
Una sera John aveva davvero raggiunto il limite e lei, Nora, se ne era accorta dal movimento nervoso della caviglia del fratello che, mentre Mrs. Blackbone finiva una delle sue solite filippiche, non smetteva di far ballare il piede e masticare a vuoto.
Quando la scenata ebbe termine John chiese di potersi congedare e Nora, temendo che la madre desse inizio al piagnisteo che di solito seguiva, fece lo stesso. Asciugandosi la fronte imperlata di sudore e chiedendosi che cosa avesse fatto di male per meritarsi dei figli degeneri, Mrs. Blackbone acconsentì. I due fratelli salirono al piano di sopra e John sussurrò a Nora di seguirlo nella sua stanza. Si sedettero sul letto di John e…il sogno cambiò improvvisamente ambientazione.
Nora adesso si trovava nel giardino della residenza oxoniense. Mancavano pochi giorni alla partenza di suo padre e lei stava seduta su una panchina di marmo a leggere un libro. Sua madre e suo fratello erano in città per alcune compere perciò in casa c’erano solo lei, la governante e Mr. Blackbone. Era arrivata a metà del libro quando aveva sentito un urlo. Spaventata, era corsa in direzione della piccola serra che Mrs. Blackbone aveva fatto costruire nel lato sud del giardino e, accostato l’orecchio, aveva riconosciuto la voce di suo padre che parlava con la governante. Il tono era freddo, innaturale per l’uomo che lei era abituata a conoscere.
“Nessuno lo troverà mai e nessuno dovrà mai saperlo. Mia moglie e i miei figli non potrebbero sopportare una cosa del genere. Io sto per partire e tu ti troveresti in mezzo a una strada. Preferisci morire di fame? La vita continua…”
La donna piangeva. Si lamentava come un animale al quale hanno fatto davvero molto male. Nora era pietrificata. Cosa c’era lì dentro? Cosa avevano nascosto? Doveva essere una cosa brutta davvero per far piangere Mary in quel modo. Sentì di nuovo la voce di suo padre e smise di respirare.
“La verità non dovrà mai venire a galla. Pensa che la morte di uno vale la vita di tutti gli altri. Il bambino non avrebbe avuto nulla. Un bastardo non ha futuro.”
A quelle parole Nora si svegliò di colpo e capì. Capì che l’uomo che aveva visto nello specchio, l’uomo fluttuante nel corridoio in una nube giallastra era qualcuno che conosceva bene. Nora capì e finalmente ricordò. Ricordò che dopo aver sentito suo padre emettere quella sentenza aveva perso i sensi e quando si era risvegliata, due giorni dopo (come sua madre le aveva raccontato) non rimaneva traccia nella sua memoria né della serra né del terribile segreto che Mary e suo padre tenevano nascosto tra le rose bianche del giardino.

Il mattino seguente Nora si alzò, si vestì e uscì insieme a Prince of Wales per spedire un telegramma al fratello perché, una volta riemerso dalle profondità della sua mente, quel mostro andava neutralizzato e per farlo aveva bisogno di John.
Si recò all’ufficio postale e condensò la sua angoscia nelle poche righe ammesse da quel genere di messaggi. Mentre attraversava la porta d’uscita verso il marciapiedi soleggiato, però, il lamento di Mary e quello di Prince per un attimo risuonarono nelle sue orecchie e le parvero insostenibili.
Rincasò e la prima cosa che fece fu abbracciare i nipoti, la cognata e Giovanna. La governante ne fu un po’ imbarazzata ma accettò di buon grado quella manifestazione di affetto alla quale non sapeva dare una spiegazione.
Calata la sera Nora si ritirò in camera e scrisse una lettera al fratello. Una lettera che avrebbe spedito solo una settimana più tardi, ma che quando riuscì a imbucare, una volta fugati tutti i dubbi, la rese sicura di aver fatto la cosa migliore per tutti. Mentre si spazzolava i lunghi capelli neri si chiese se fosse davvero giusto dire sempre la verità o se, per proteggere le persone che si amano nonostante tutto e anche a costo di vivere con un peso enorme come aveva fatto suo padre, alcuni segreti non dovessero mai venir svelati. D’altra parte chi, se non lei, una ‘ragazza di carattere’, come la definiva il Console, avrebbe potuto sopportare in silenzio un segreto tanto orribile? Suo fratello stava già scontando una vita prigioniera del fantasma di sua madre, sarebbe stato giusto gravarlo di un’altra maledizione?
Era sicura che John non avesse mai inteso cosa dormiva nel giardino dei Blackbone e, se la forza non le fosse venuta meno, non lo avrebbe mai saputo.

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